In Europa ancora il 44% dei cittadini (dati Eurobarometro) ritiene che il compito principale per una donna sia occuparsi della casa e della famiglia.
Il mito e la condanna a una vita da «angelo del focolare» trova eco anche in questa nostra contemporaneita’ con le nuove espressioni di caregiver o breadwinner legate al ruolo femminile anche se sembra cosi’ lontana da quello schema archetipico.
E manca, tra l’altro, una reale valorizzazione economica di quel ruolo.
Per l’Istat di fatto le donne che lavorano nel complesso sono impegnate per 60 ore alla settimana tra ore di lavoro esterne e ore di lavoro per la famiglia.
L’altra faccia di questo squilibrio e’ che le donne soffrono di una poverta’ di tempo.
E se questo surmenage venisse remunerato si e’ stimato che sarebbe, nel complesso, di un valore oscillante tra il 10 e il 39% del Pil globale.
E a proposito di empowerment economico, se il lavoro femminile fosse pari a quello degli uomini (in quantita’ e qualità) il Pil del mondo salirebbe del 26 per cento […]
Unione europea e’ all’avanguardia nel mondo per la parita’ di genere: 14 tra i primi 20 Paesi al mondo per l’attuazione della parita’ di genere sono Stati membri dell’UE […] L’Italia e’ un po’ sotto la media europea, con un punteggio generale di 63,5.
Le disuguaglianze di genere sono piu’ marcate nei settori del potere (48,8 punti), del tempo (59,3 punti) e della conoscenza (61,9 punti). Ma e’ il lavoro il vero scandalo: l’Italia ha il punteggio piu’ basso di tutti gli Stati membri della Ue e si ferma a 63,3 (il suo punteggio piu’ alto e’ invece nel settore della salute con 88,4 punti).
L’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere ha stimato che se i progressi nella riduzione del gender gap proseguono alla velocita’ di quelli di oggi ci vorranno 60 anni per il raggiungimento della effettiva parita’. Con uno scandalo ulteriore: le donne hanno scolarita’ superiori a quelle degli uomini e in genere risultati scolastici piu’ brillanti. Dunque, sono talenti, capitale umano pregiato, competenze che l’Italia tende a sprecare o a usare nel modo piu’ inefficiente creando sacche di sottoccupazione (con ruoli inferiori ai titoli di studio e ai curricula) […]
Si chiama child penalty: i figli, in un Paese che manda deserte le gare per aumentare gli asili nido al Sud con i fondi del Pnrr, finiscono per rappresentare un ostacolo alla piena occupazione delle donne.
L’11% delle madri non ha mai lavorato oppure, alla nascita dei figli, abbandona il lavoro nell’11% dei casi con il primogenito, percentuale che sale al 17% con due figli e al 19% con tre o piu’.
C’e’ una triste controprova di questo ostacolo: le donne single in media guadagnano piu’ degli uomini single.
E’ evidente che il superamento del gender gap passa anche da una diversa concezione e fruizione degli strumenti di welfare e di sostegno alla famiglia. La conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita per ogni donna non e’ solo un tema da convegno, e’ la turbinosa gestione della quotidianita’. Almeno fino a quando non lo diventera’ del pari anche per gli uomini. E sconta, tra l’altro, una zavorra culturale che e’ tutta in una risposta data dagli italiani a un sondaggio di World Value Survey. All’affermazione «Un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora» l’81,4% degli italiani dichiara di essere d’accordo. In Europa in media quella percentuale scende al 55,6 per cento.
Il «che fare?» e’ tutto in quei 25 punti di scarto.