Europa/Fagan

Pierluigi Fagan – Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump- Fazi (2017)

L’Europa geostorica conta almeno le macroaree mediterraneo-latina, quella tedesco-scandinava, quella balto-slava, quella balcanica, quella bulgaro-rumena-ucraina oltre a quella britannica […]
L’Unione Europea vale il 25 per cento del PIL mondiale [Banca Mondiale 2015] con il 7,1 per cento della popolazione (qualcosa meno quando sara’ ratificato l’abbandono britannico), l’eurozona e’ il 15,8 per cento del PIL mondiale con il 4,7 per cento della popolazione.
Purtroppo, il peso percentuale del suo PIL e il peso percentuale della sua popolazione sono in contrazione storica. L’UE, nel 1970, valeva il 37 per cento del PIL mondiale, ha perso quindi piu’ di un terzo del suo peso in quarant’anni. Demograficamente, l’Europa intera pesava il 21 per cento del mondo nel dopoguerra; nel 2050 avra’ perso 2/3 della sua consistenza e sara’ solo il 7 per cento del totale.
Dei 20 paesi del mondo che hanno i piu’ bassi indici di natalita’, 16 sono europei.
Dei 20 per maggior aspettativa di vita, 15 sono europei (l’Italia e’ tra i leader nell’una e nell’altra classifica).
L’Europa e’ un universo in contrazione, con un peso ancora importante ma in prospettiva meno decisivo e una popolazione sempre più anziana.

Info:
https://pierluigifagan.wordpress.com/verso-un-mondo-multipolare-il-libro/
http://www.marx21.it/index.php/internazionale/mondo-multipolare/28857-verso-un-mondo-multipolare-il-gioco-di-tutti-i-giochi-nellera-trump

Capitalismo/Alacevich

Michele Alacevich, Anna Soci – Breve storia della disuguaglianza – Laterza (2019)

La disuguaglianza e’ stata riconosciuta come un problema urgente non solo per nazioni periferiche, remote e meno sviluppate, ma anche per i paesi industrializzati al centro del mondo capitalista e democratico.
Le difficolta’ sempre maggiori del welfare state e la crisi della rappresentanza attraversata da molte socialdemocrazie l’hanno portata ai primi posti dell’agenda politica.
La discussione si e’ concentrata su un numero di politiche diverse […]
1) Politiche fiscali […] La proposta di Piketty per ridurre la disuguaglianza tra i membri della comunita’ nazionale e’ di aumentare notevolmente la progressivita’ del sistema fiscale in modo che le fasce piu’ alte di imposta raggiungano un’aliquota fiscale di circa l’80%. Ovviamente, cio’ richiederebbe un forte coordinamento internazionale, altrimenti i super-ricchi si trasferirebbero semplicemente in uno Stato con una tassazione a loro piu’ favorevole […]
2) Riforme istituzionali del mondo societario […] Questi interventi dovrebbero aumentare la trasparenza delle operazioni finanziarie e mirare a frenare comportamenti eccessivamente rischiosi o puramente speculativi, l’assenza di responsabilita’ da parte dei manager e gli incentivi a privilegiare il guadagno di breve periodo che arricchiscono i manager rispetto alla solidita’ di lungo periodo che favorisce gli investitori. Una proposta ulteriore per penalizzare la speculazione e’ la tassazione delle transazioni a breve termine sul mercato dei cambi […]
3) Politiche dell’istruzione […] Il progresso tecnologico e’, secondo un ampio consenso, skill-biased, ovvero richiede lavoratori sempre piu’ qualificati. L’investimento in capitale umano e’ quindi una forza perequativa fondamentale nella misura in cui consente alle persone di accedere a un’istruzione di alto livello e al passo con una tecnologia che necessiti di una manodopera sempre piu’ qualificata […]
4) Disuguaglianza e mobilità sociale. Il divario economico, in altre parole, passa da una generazione all’altra, e una piu’ alta disuguaglianza in una generazione porta a una piu’ alta disuguaglianza in quella successiva, minando la mobilita’ intergenerazionale.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858136249
https://www.letture.org/breve-storia-della-disuguaglianza-michele-alacevich-anna-soci

 

Lavoro/De Biase

Luca De Biase – Il lavoro del futuro – Codice (2018)

Si delineano alcune evidenze:
1. C’è un disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Ma se chi non innova perde occupazione, chi innova puo’ crearne.
2. Per ora, l’intelligenza artificiale non riduce il lavoro, anzi ne crea. Ma alcune tecnologie eliminano posti in fretta e creano occupazione lentamente.
3. La lentezza e’ dovuta al fatto che per usare bene il digitale occorre una cultura nuova.
4. Per adattare il modo di pensare alla grande trasformazione non occorre tanto “flessibilita’”, quanto “strategia” progettuale.
5. Un’azienda che coinvolge i collaboratori nel progetto di migliorare la produttivita’ e creare prodotti straordinari puo’ crescere, automatizzare la produzione e aumentare l’occupazione.
6. Le aziende innovative tendono sempre meno a comprare il tempo delle persone e sempre piu’ a comprare la loro capacita’ di realizzare progetti.
7. Esiste una tendenza alla polarizzazione: da una parte, persone con elevate conoscenze e ottimi risultati economici; dall’altra, lavoratori con capacita’ e reddito limitati.
8. Mentre le grandi aziende tendono a espellere manodopera alle dirette dipendenze, possono candidarsi come abilitatori di ecosistemi capaci di sviluppare piu’ posti di lavoro.
9. Due scenari si consolidano: a) le piattaforme parcellizzano il lavoro in microattivita’ sottopagate e b) servono alla cooperazione necessaria per generare beni comuni.
10. Occorre una formazione che specializzi e nello stesso tempo apra la mente alla consapevolezza del cambiamento.
11. L’ambito nel quale si progettano e realizzano le soluzioni piu’ concrete e’ quello territoriale. Con la partecipazione di imprese, universita’, enti locali.
12. Per affrontare il futuro occorre saper cambiare, mantenendo pero’ una direzione di fondo: ci si prepara ibridando i saperi e assorbendo in profondita’ le materie fondamentali.
13. Anche i direttori delle risorse umane si modernizzano, e lo fanno guardando al lungo termine: come si investe nelle macchine, si deve investire nelle persone.

Info:
https://www.pandorarivista.it/articoli/lavoro-del-futuro-luca-de-biase/
https://opentalk.iit.it/rubrica-book-review-il-lavoro-del-futuro/

Economia di mercato/Fana

Marta Fana, Simone Marta – Basta salari da fame – Laterza (2019)

Sono gli anni delle grandi privatizzazioni, che iniziano nel 1992, quando il governo Amato vara il decreto Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica, avviando la trasformazione di Eni, Enel, Iri e Telecom in societa’ per azioni.
Vengono svendute anche Italsider (cioe’ l’Ilva), Nuovo Pignone e molto altro.
Dietro questo processo c’e’ l’idea che il privato, guidato dal mercato, e’ sempre preferibile alla gestione pubblica; ma c’e’ anche la convinzione che vendendo i gioielli di Stato si sarebbe potuto ridurre l’“elevato” stock di debito pubblico.
Oltre alla miopia nella scelta di (s)vendere pezzi altamente redditizi per il breve e lungo periodo del sistema produttivo in favore di un consolidamento di bilancio – tutto da dimostrare – di breve termine, le privatizzazioni saranno la causa del processo di sbilanciamento tra redditi e profitti.
L’aumento della quota profitti si concentra in pochissimi settori: energia, trasporti, comunicazioni e bancario, guarda caso proprio quelli appena privatizzati. I nuovi proprietari privati possono godere contemporaneamente del blocco dei salari e della posizione di monopolio che lo Stato ha loro trasferito […]
La possibilita’ di estrarre saggi di profitto piu’ elevati senza dover ricorrere ad aumenti produttivi sia in termini quantitativi che qualitativi poggia su un’altra strategia: il decentramento produttivo con e senza il ricorso al sistema di appalti e subappalti. Utilizzato non solo in Italia, e’ uno tra gli espedienti attraverso cui i processi produttivi si dispiegano concretamente, rendendo sempre piu’ variabile il fattore lavoro utilizzato.
In Italia il sistema degli appalti e dei subappalti ha radici storiche ben sedimentate fin dagli anni Sessanta […]
I casi di esternalizzazione delle fasi produttive, di ricorso al sistema degli appalti e subappalti sono all’ordine del giorno, cosi’ come i 
casi di delocalizzazione della produzione. I due fenomeni, esternalizzazione e delocalizzazione, rientrano entrambi nella sfera delle ristrutturazioni capitalistiche nonostante si sviluppino lungo direttrici geografiche differenti: mentre la delocalizzazione fa riferimento alla produzione oltre i confini nazionali, l’esternalizzazione puo’ avvenire sia dentro che fuori tali confini.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858138878
http://www.leparoleelecose.it/?p=37065
https://www.pandorarivista.it/articoli/basta-salari-da-fame-marta-fana-simone-fana/

Stato/Judt

Tony Judt – Quando i fatti (ci) cambiano. Saggi 1995-2010 – Laterza (2020)

La stessa sfida – comprendere che cosa era successo tra le guerre e impedirne il ripetersi – fu affrontata da John Maynard Keynes. Il grande economista inglese, nato nel 1883 (come Schumpeter), era cresciuto in una Gran Bretagna stabile, sicura, prospera e potente […]
Anche Keynes si sarebbe posto la domanda che si erano fatti Hayek e i suoi colleghi austriaci. Ma propose una risposta assai diversa […]
Se c’era una lezione da trarre dalla depressione, dal fascismo e dalla guerra, era questa: l’incertezza, elevata a livello di insicurezza e di paura collettiva, era la forza corrosiva che aveva minacciato e avrebbe potuto minacciare di nuovo il mondo liberale.
Keynes auspicava quindi un ruolo piu’ incisivo dello Stato assistenziale, compreso, ma non solo, l’intervento economico in funzione anticiclica […]
Per i trent’anni successivi, la Gran Bretagna (come gran parte del mondo occidentale) fu governata sulla base delle preoccupazioni di Keynes […]
Lo Stato sociale poteva vantare notevoli risultati. In alcuni paesi era socialdemocratico, fondato su un programma ambizioso di legislazione socialista; in altri – per esempio in Gran Bretagna – consisteva in una serie di politiche pragmatiche volte ad alleviare gli svantaggi e a contenere i livelli estremi di ricchezza e di indigenza. Il tema comune e il risultato universale dei governi neokeynesiani del dopoguerra era il notevole successo ottenuto nel ridurre la disuguaglianza.
Se confrontiamo il divario fra ricchi e poveri, in base al reddito o al patrimonio, vedremo che in tutti i paesi dell’Europa continentale, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si riduce drasticamente nella generazione successiva al 1945.
La maggiore uguaglianza era accompagnata da altri benefici.
Col tempo, la paura di un ritorno dell’estremismo politico – la politica della disperazione, la politica dell’invidia, la politica dell’insicurezza – si attenuo’. Il mondo occidentale industrializzato entro’ in un’epoca felice di prospera sicurezza: una bolla, forse, ma una bolla confortevole in cui la maggior parte delle persone se la passava molto meglio di quanto potesse mai aver sperato in passato e aveva buone ragioni per guardare al futuro con fiducia […]
Fu la socialdemocrazia a saldare il legame tra i ceti medi e le istituzioni liberali (uso qui «ceti medi» nel senso europeo) […]
Cosi’, quella stessa classe sociale che era stata tanto esposta alla paura e all’insicurezza negli anni interbellici adesso era stabilmente integrata nel consenso democratico del dopoguerra.
Alla fine degli anni Settanta, tuttavia, queste considerazioni venivano sempre piu’ trascurate.
A partire dalle riforme fiscali e del lavoro introdotte nel periodo Thatcher-Reagan, seguite a distanza ravvicinata dalla deregolamentazione del settore finanziario, la disuguaglianza e’ tornata a essere un problema nella societa’ occidentale.
Dopo il notevole calo registrato tra gli anni Dieci e gli anni Set- tanta del Novecento, negli ultimi tre decenni l’indice di disuguaglianza e’ sistematicamente aumentato.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858126479
https://ilmanifesto.it/tony-judt-e-la-responsabilita-della-storia/

Europa/Marsili

Lorenzo Marsili, Yanis Varoufakis – Il terzo spazio. Oltre establishmant e populismo – Laterza (2017)

Il punto chiave: uscire dall’euro non ci fara’ uscire dal fondamentalismo di mercato […]
Si tratta, invece, di capire che il problema e’ piu’ grande dell’euro. Che il problema non e’ uno spazio geografico o un confine. Ma l’uscita da un immaginario distorto e corrotto e da un sistema economico iniquo e distruttivo.
Basti pensare come sia proprio negli Stati Uniti – paese con piena sovranita’ monetaria se mai ce ne fu uno – che si e’ sviluppato lo slogan del 99% e in cui tutto cio’ che rimproveriamo all’Unione e’ amplificato: un mercato finanziario ancora piu’ rapace e diseguaglianze ancora piu’ marcate, una classe politica ancora piu’ succube delle grandi lobby e una democrazia talmente corrotta da aver creato le condizioni per la vittoria di Donald Trump.
L’opposizione fra quanti sono a favore di una maggiore integrazione e quanti chiedono un’uscita dalla moneta unica e’ un’opposizione falsata e fuorviante.
Il punto non e’ cambiare la moneta, ma cambiare la politica.
E iniziare a uscire dal pantano non richiede un nuovo conio, ma un nuovo corso.
Si tratta di costruire le basi di quella che piu’ avanti chiameremo disobbedienza governativa, ossia la capacita’ della politica di innescare un vero conflitto con le strutture dell’Unione, senza escludere la possibilità di un’implosione dell’euro se il sistema continuera’ a barricarsi dietro a immobilismi e rigidita’, ma senza fare di questo il nostro obiettivo.
Perche’ il nostro obiettivo deve essere quello di restituire democrazia e sovranita’ popolare, eguaglianza e dignita’, alla grande maggioranza di cittadini che ne e’ privata tanto dall’Unione quanto dal proprio Stato nazionale.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858128282
https://www.sns.it/it/evento/terzo-spazio
https://www.estetica-mente.com/recensioni/libri/lorenzo-marsili-yanis-varoufakis-terzo-spazio-oltre-establishment-populismo/73210/
http://www.mangialibri.com/libri/il-terzo-spazio

Capitalismo/Deneault

Alain Deneault – La mediocrazia – Neri Pozza (2017)

Al marchio e all’azienda viene riservato un vero e proprio culto. Del resto la religione – come suggerisce l’etimologia stessa della parola – lega, coalizza.
Diventata imprenditrice, la religione unisce le pecorelle – non soltanto gli impiegati, ma anche i fornitori e i clienti della ditta – in una reale comunione, sotto forma di puntuali adunate, saloni pubblici o cerimonie. Il motociclista che venera un determinato marchio fino al feticismo e socializza con i suoi simili in occasione di grandi raduni, ne e’ un esempio perfetto.
Insomma, la religione s’impone come una formidabile modalita’ di manipolazione […]
Questa teologia d’impresa si riassume con un grafico ascensionale che testimonia il passaggio della merce dal semplice status di «prodotto» a quello, salvifico, della «religione del marchio» (brand religion).
Secondo questo approccio, un «prodotto» smette di essere designato come tale – un dolciume, un maglione, una consolle per videogiochi, un tavolo… – e viene piuttosto assimilato al suo «concetto di marchio».
Una volta etichettato, il prodotto genera una sensazione o, in gergo tecnico, un «valore emozionale aggiunto». Non e’ piu’ un fazzoletto, non e’ piu’ un orologio, non e’ piu’ un semplice te’, perche’ il fazzoletto, l’orologio e il te’ – una volta associati ai marchi Kleenex, Rolex e Lipton –, irradiano calore, sicurezza familiare, garanzia di fiducia, persino sentimento materno.

Info:
https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/01/25/news/il_trionfo_della_mediocrazia_spiegato_dal_filosofo_canadese_alain_deneault-156837500/
http://blog.ilgiornale.it/franza/2018/05/27/la-mediocrazia-un-libro-magistrale-del-canadese-alain-deneault-ne-traccia-il-pensiero-e-spiega-come-i-mediocri-hanno-preso-il-potere/

Populismo/Urbinati

Nadia Urbinati – Io il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia – Il Mulino (2020)

Specialmente a partire dal referendum sulla Brexit nel 2016, alcuni politici e opinionisti hanno adottato questo termine [populismo] per denotare ogni movimento di opposizione: dai nazionalisti xenofobi ai critici delle politiche neoliberali.
Quest’uso trasforma l’aggettivo «populista» in un termine che tiene insieme tutti coloro che non governano e criticano chi governa, con l’esito che i principi sottesi a queste critiche diventano assolutamente irrilevanti.
Un prevedibile effetto collaterale di questo atteggiamento polemico e’ che riduce la politica a una contesa tra populismo e
governabilita’, dove «populismo» designa qualsiasi movimento di opposizione e «governabilita’» la politica democratica o piu’ semplicemente la gestione delle istituzioni.
Il fatto e’ che, quando i movimenti populisti vanno al governo, questo approccio polemico e’ inservibile perche’ non riesce a spiegare come le democrazie costituzionali possano produrre e assorbire maggioranze populiste; e, soprattutto, non ci aiuta a intravedere una risposta efficace e vincente al populismo […]
Dovremmo abbandonare l’atteggiamento polemico e considerare il populismo alla stregua di un processo politico inteso a conquistare il governo.
Suggerisco di vederlo come l’esito di una trasformazione dei tre pilastri sui quali si regge la democrazia moderna – il popolo, il principio di maggioranza e la rappresentanza.
Non condivido quindi la visione diffusa per cui le forze populiste sarebbero prevalentemente votate all’opposizione e incapaci di governare.

Info:
http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/05/08/nadia-urbinati-e-il-populismo/
https://www.vaticannews.va/it/osservatoreromano/news/2020-03/la-verita-vi-prego-sul-populismo.html
https://www.fatamorganaweb.unical.it/index.php/2020/01/27/dal-populismo-al-popolo-democrazia-nadia-urbinati/

Lavoro/Harvey

David Harvey – L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza – Feltrinelli (2011)

Uno dei maggiori ostacoli all’accumulazione sostenuta del capitale e al consolidamento della classe capitalista negli anni sessanta e’ stato il lavoro.
In Europa come negli Stati Uniti c’era penuria di manodopera; i lavoratori erano ben organizzati, ragionevolmente ben retribuiti e avevano peso politico.
Il capitale aveva bisogno di attingere a bacini di manodopera meno cara e piu’ docile, e c’erano vari espedienti per farlo. Uno era incoraggiare l’immigrazione […]
Alla fine degli anni sessanta il governo francese sovvenzionava l’importazione di manodopera dal Nord Africa, i tedeschi accoglievano i turchi, gli svedesi incoraggiavano l’immigrazione degli iugoslavi e i britannici attingevano agli abitanti del loro antico impero.
Un altro modo per accedere a bacini di manodopera a basso costo era quello di sviluppare tecnologie a bassa intensita’ di lavoro, come la robotizzazione nella fabbricazione di automobili, che creavano disoccupazione […]
Se tutto cio’ non avesse sortito gli effetti desiderati, c’erano comunque persone come Ronald Reagan, Margaret Thatcher e il generale Augusto Pinochet pronte a intervenire, armate della dottrina neoliberista, determinate a ricorrere al potere dello Stato per schiacciare le organizzazioni dei lavoratori. Pinochet e i generali argentini lo fecero con la forza militare; Reagan e la Thatcher ingaggiarono uno scontro frontale con i grandi sindacati, sia direttamente – come quando Reagan mise in atto una prova di forza con i controllori del traffico aereo e la Thatcher si scontro’ violentemente con i sindacati dei minatori e dei lavoratori editoriali –, sia indirettamente, attraverso la creazione di disoccupazione […]
Il capitale aveva anche la possibilita’ di recarsi direttamente la’ dove si trovava l’eccedenza di manodopera […] Inondate di un’eccedenza di capitale, le grandi imprese statunitensi avevano cominciato a trasferire la produzione all’estero gia’ alla meta’ degli anni sessanta, ma questo movimento ha preso slancio soltanto un decennio piu’ tardi […]
Il capitale aveva ormai accesso ai bacini di manodopera a basso costo del mondo intero. Quel che e’ peggio, il crollo del comunismo, avvenuto bruscamente nell’ex blocco sovietico e gradualmente in Cina, ha poi aggiunto circa due miliardi di persone alla forza lavoro salariata global.

Info:
http://www.spazioterzomondo.com/2012/05/recensione-david-harvey-l%E2%80%99enigma-del-capitale-e-il-prezzo-della-sua-sopravvivenza-feltrinelli/
http://contropiano.org/contropianoorg/aerosol/vetrina-pubblicazioni/2011/07/05/l-enigma-del-capitale-e-il-prezzo-della-sua-sopravvivenza-02315
http://www.millepiani.org/recensioni/l-enigma-del-capitale-e-il-prezzo-della-sua-sopravvivenza

Finanziarizzazione/Galli

Giorgio Galli, Francesco Bordicchio – Arricchirsi impoverendo – Mimesis (2018)

La classifica dei cento maggiori gruppi mostra l’evoluzione dal capitalismo manifatturiero a quello finanziario: al primo posto per fatturato (926.837 miliardi di euro) e’ Unicredit; al secondo Intesa Sanpaolo (673.4729); al terzo la pur in difficoltà Montepaschi (218.882); al quarto Ubibanca (132.433). Eni (energia) e’ solo al quinto posto (127.220), seguita da Enel, pure energia (84.889). La Fiat e’ solo settima, anche se al primo posto per numero di dipendenti (205.112), con Unicredit comunque seconda (con 164.938) […]
Un altro fenomeno che, insieme alla finanziarizzazione, caratterizza il capitalismo italiano nel corso della crisi, cioe’ la deindustrializzazione: dal 2007 al 2015, l’Italia perde quasi un quarto della propria produzione industriale, a seguito delle grandi aziende vendute o portate all’estero, dalla Pirelli (diventata cinese nel 2015), all’Alitalia (passata agli Emirati nel 2014), all’Ansaldo, a Indesit, Italcementi, Ferrari, Parmalat […] oltre a marchi di prestigio, dalla moda a Bulgari.
Insomma, le multinazionali italiane, al cui vertice si collocano i detentori di ricchezza per novemila miliardi di cui si è detto, si finanziarizzano e si delocalizzano, in un Paese che si sta impoverendo.

Info:
https://www.unilibro.it/libro/galli-giorgio-bochicchio-francesco/arricchirsi-impoverendo-multinazionali-capitale-finanziario-crisi-infinita/9788857543932