Prima lezione: la crisi delle finanze pubbliche non e’ un fenomeno contabile al quale si possa attribuire una grandezza assoluta, ma e’ relativa alle decisioni momentanee dei mercati finanziari, alla loro valutazione delle capacita’ degli Stati di pagare gli interessi dei debiti e al tasso di interesse richiesto sui nuovi prestiti di cui gli Stati debitori hanno bisogno per far fronte alle scadenze.
Dunque il grado di indebitamento degli Stati, il loro grado di autonomia o di sovranita’ economica fluttuano in base al modo in cui sono costantemente valutati dai mercati, allo stesso modo di societa’ quotate in borsa.
Ma chi dice «mercato» dice un sistema di scambio e di valorizzazione i cui protagonisti principali (dominanti se non onnipotenti) sono le grandi banche e i principali fondi speculativi. Questi di conseguenza sono diventati, in senso forte, dei protagonisti politici, in quanto dettano a tutta una serie di Stati e anche alle banche centrali la loro politica sociale, economica e monetaria […]
Una seconda lezione […] nel caso dei mercati finanziari la concorrenza non porta a un equilibrio tra domanda e offerta, ma al contrario a una fuga in avanti nella capitalizzazione degli attivi, il cui valore aumenta indefinitamente con l’estensione del credito… finche’ non crolla.
O il potere pubblico impone alle operazioni speculative regole di prudenza e di trasparenza, oppure il bisogno illimitato di capitali liquidi, destinati alle speculazioni piu’ redditizie a breve termine, costringe a una deregolazione sempre piu’ totale: le due cose non possono andare insieme. Anche qui ci si trova di fronte a un’alternativa politica nel campo dell’economia (prodotta dalla finanza), che si avvicina a un conflitto di sovranita’ […]
Un terza lezione [..] e’ che a lungo termine esiste una correlazione fondamentale tra il modo in cui si distribuiscono le diseguaglianze sociali tra i territori nazionali o all’interno di questi territori (diseguaglianze di reddito – salari diretti o indiretti – e dunque, date le condizioni storiche e culturali, diseguaglianze di livello e di qualita’ della vita) e le politiche attuate per aumentare la competitivita’ dal punto di vista dell’attrazione di capitali internazionali (con la pressione sul livello salariale – grazie all’immigrazione o ad accordi Stato-sindacati, o a entrambi – e la diminuzione dei prelievi fiscali, destinata inevitabilmente a minacciare le politiche di protezione sociale).
In questo quadro, gli Stati riconquistano almeno una parte della loro capacita’ di determinare politicamente le condizioni economiche della politica, che, come si e’ detto, tendono a sfuggire loro a vantaggio degli attori finanziari nel gioco del credito.
Ed e’ evidente che gli Stati si servono di questa capacita’ per privilegiare, ad esempio, la difesa di un modello di sicurezza sociale o, al contrario il recupero di un sottosviluppo storico attraverso un’industrializzazione orientata verso l’esportazione. Ma questo avviene entro due limiti piu’ o meno ridotti: da un lato, il limite che deriva dal fatto che nell’economia globalizzata un modello di sviluppo economico e sociale sostenuto dallo Stato […] non possa essere scelto a piacimento, con una semplice decisione indipendente da quello che fanno gli altri […] dall’altro, il limite che proviene dal fatto che le scelte politiche in materia di diseguaglianze sociali […] siano sopportate piu’ o meno pazientemente dai cittadini, in altri termini che si scontrino o meno con quella che un tempo veniva chiamata «lotta di classe»
Info:
https://www.illibraio.it/libri/etienne-balibar-crisi-e-fine-delleuropa-9788833928449/
https://www.lindiceonline.com/osservatorio/economia-e-politica/balibar-crisi-europa-ordoliberale/
https://www.sinistrainrete.info/politica/9646-etienne-balibar-populismo-e-contro-populismo-nello-specchio-americano.html